Un’isola felice fra astrazione e reale, nel limbo dei segni di Martino Brivio

La storia dell’arte ci insegna che per leggere il reale, gli eventi della storia, le vicende religiose, piuttosto che gli episodi mitici, non si può tralasciare di prendere in esame la prerogativa illuminante rivestita dal canale dell’astrazione. Lo spessore di certe avanguardie di solida levatura, probabilmente storica prima ancora che tecnica – il futurismo forse in testa a tutti – certifica l’innegabile potere suggestionante esercitato da questo sfaccettato e multidirezionale sentiero rappresentativo da cui proliferano interpretazioni dove l’indeterminatezza che per definizione anima questo processo illusorio, sollecita chi guarda a doversi attivare coscientemente per afferrare il messaggio veicolato dalle scene. Lavori in cui regna sovrana l’incertezza del soggetto somministrato, che solo in apparenza complicano la comprensione dei concetti illustrati, a volte fra l’altro rivelati nei titoli.

Il lissonese Martino Brivio (1958) si posiziona nel solco di questa tradizione emozionale, quella degli autori che amano decantare la brezza della non chiarezza delle trame, a beneficio di un deciso sforzo della mente che ricolleghi tra loro le parti potenzialmente mancanti, specie le forme, nell’economia dell’identificazione finale di soggetti plausibili, così che le elaborazioni assumano un senso più evidente. Condizione imprescindibile, la compresenza di osservatori che sappiano valorizzare e riconoscere la profondità di queste trame. L’artista brianzolo ribalta così la diffusa convinzione che l’astratto sia dicotomico rispetto al senso figurativo. Sostenuto anche da una buona dose connaturata di sperimentalismo e dal ricorso ad una tavolozza molto ricca e dalle tonalità brillanti dirottate sulla tela in modo veloce e dinamico, facendo inoltre leva sulla componente gestuale, si spinge in una sorta di limbo, una terza dimensione che evoca più concretezza che evanescenza.

Un aspetto ricorrente del suo operare, consolidato nel tempo, che si può ben recepire solo soffermandosi qualche istante sul suo trascorso formativo. “Come accade a molti profili, anche la mia base pittorica si è costruita da un’iniziale impronta autodidattica. A conferma di questo, fin da giovane leggevo e mi tenevo informato con le riviste di settore d’arte, come del resto faccio tuttora – racconta Martino – tra gli anni “80 e “90 la passione ha preso via via maggior vigore, convincendomi di dover concretizzare questo mio istinto artistico che ha sempre bilanciato l’altra parte delle mie inclinazioni, legate al campo scientifico. Così per acquisire i rudimenti del disegno mi sono rinforzato con i corsi della Famiglia Artistica Lissonese; in un secondo momento mi sono affidato alla Libera Accademia di Pittura di Nova Milanese, e qui devo dire di aver raggiunto quella maturità che cercavo nella copia dal vero, diversificando le pose delle modelle per i bozzetti in carboncino, che poi è diventato una costante per le opere su carta per il tratto immediato, prestandosi bene per lavori piuttosto rapidi”.

Quel posizionamento a metà strada tra il non definito e l’incessante ricerca di una forma nel gesto veloce si traduce in una selva organica di segni, che l’autore testa sia nel disegno, giocando molto con il carboncino e la creta colorata, coniugandola poi a livello di pittura: per Martino questi lampi di colore densi d’istintualità e di stampo quasi futuristico, diventano la regola e il suo fattore di limpido riconoscimento. Tant’è che “qualcuno” finisce per notarlo. “Da metà degli anni “90 la storica dell’arte veronese, dottoressa Giulia Sillato, stava affrontando una ricerca a livello nazionale che da una parte cercava di sondare il terreno per capire i margini di una possibile categorizzazione dell’arte contemporanea nella sua sfera informale che mancava da qualche decennio, e dall’altro lato era desiderosa di comprendere se ci fossero in quel momento le condizioni per una sorta di continuazione delle Avanguardie storiche. Da parte mia ero curioso di capire meglio il valore aggiunto che potevo trarne accostandomi a un’esperienza nascente di questo tipo, a prima vista attraente. Lo afferrai meglio quando ebbi occasione di vedere la prima rassegna del gruppo neocostituito a Palazzo Ducale di Mantova e notai il legame molto forte instaurato fra le opere selezionate e il contesto sontuoso in cui erano accolte”.

Nasce così un gruppo, formalmente ancora non riconosciuto, ma che già all’epoca faceva riferimento al termine “metaformismo” (nasce ufficialmente una decina d’anni più tardi, in occasione di una mostra al Palazzo Ducale di Urbino nel 2010-11), composto da artisti italiani chiamati direttamente dalla Sillato a dar vita, dalla fine del decennio “90, a una rassegna di mostre itineranti dislocate per tutto lo Stivale – una manciata all’anno – prima con sedi espositive ricadute sui musei civici, poi estesa anche alle dimore storiche nostrane, in un’operazione eccezionale quindi duplice, volta al recupero dell’attenzione su edifici a volte di valore storico evidente, ma non abbastanza evidenziato. Negli anni aprono le porte alla nobile iniziativa, fra le altre, Palazzo Giureconsulti, Palazzo Isimbardi, lo spazio privato di grande suggestione estetica della Fondazione Luciana Matalon, e Palazzo Bonacossa a Milano, il Chiostro del Bramante a Roma, Palazzo del Podestà a Verona, il complesso dannunziano del Vittoriano di Gardone Riviera (Brescia), oltre a decine di altri siti.

Al centro dell’interesse di Martino, ma sempre in luogo pretestuoso, mai come fine ultimo, continua ad affiorare l’immagine della figura umana, più o meno individuabile graficamente (quando presente) nel turbinio di linee e frammenti di colore vorticosi, declinata anche in personaggi e temi epici e religiosi. Come in una Maternità tutt’altro che classica, intuibile dall’insieme di segni ricurvi abbozzati (2005), oppure in paesaggi naturali solo richiamati dalla vivacità dei tratti luminosi: manifestazioni della meraviglia sconfinata del creato, che trovano una superba apoteosi nel ciclo ancestrale di otto tele riferito alla Genesi (2002), dove la comparsa dell’uomo è solo accennata, mentre finissima è la scelta di rendere la Separazione delle acque attraverso un complesso tumulto segnico di varie gradazioni di blu, a restituire tutta la freschezza dell’elemento trasparente.

Martino Brivio, La caduta degli angeli ribelli (2001)

L’entità soprannaturale prende invece una sua “consistenza impalpabile” ne La caduta degli angeli ribelli (2001), riprodotti come linee circolari interrotte, impresse in un baratro rosso infernale. La forza dirompente e suggestionante dell’impostazione cromatica di Martino si ritrova anche in situazioni scevre da riferimenti mitici o spirituali: La cascata del 2001 è chiaro emblema della qualità naturalmente insita nella pittura di Martino, di saper portare l’osservatore ad uno “spaesamento cromatico”, ma al contempo agganciandosi, anche debolmente, al mondo fisico. Nel caso specifico ci svela una figura umana dal valore plastico, appena accennata nella silhouette essenziale e confusa nello sfondo monocromo immersivo: un altro fattore saliente del suo fare, simbolo di una dimensione che parte da un livello trascendente, onirico.

Insomma, le opere di questa portata narrativa, peraltro di formati spesso importanti, non possono che stringere rapporti privilegiati con le location storiche d’eccezione in cui transita il treno metaformista. Distante però dal ripetersi modularmente per una natura versatile, Martino non rinuncia nemmeno al fascino dell’astrazione più pura eliminando, in lavori come Rosso e Blue (2012), ogni indizio del tangibile, sempre e comunque lontano da un mero esercizio di stile. Ed è proprio guardando opere come queste che traspare bene la sua lucida volontà di farsi da parte per lasciare il giudizio sul suo operato ad altri. Ed è per questo che ancora oggi non ama definirsi “solo” un artista metaformista, pur consapevole che questa lunga pagina riveste un capitolo fondamentale della propria attività, consapevole dell’importanza di mantenersi autonomo per poter scegliere liberamente dove meglio posizionarsi nel variegato e instabile panorama dell’arte contemporanea.

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