Un semplice accorgimento, e in un attimo lo sguardo rivaluta l’effimero e le entità spaziali che avevamo scartato, forse neanche notato, nobilitandole e visualizzandole sotto una luce diversa, quasi estatica. In effetti spostare con un sapiente gioco di regolazione dei tempi di esposizione, il “classico” centro gravitazionale dell’attenzione mentale verso le zone d’ombra della realtà, gli angoli più remoti e inconsiderabili, eppure carichi di pulsazioni vitali, è sufficiente a trasformare radicalmente la percezione comune della fotografia: da mera attività mimetica a vera e propria arte spettacolare. Discorso peraltro più che mai attuale, nell’era delle mille possibilità digitali in cui il ruolo della tecnica fotografica appare svilito dall’immediatezza di strumenti come gli smartphone. Non parliamo a caso di percezione, perchè le istantanee di Marina Giannobi ci invitano a riflettere con gli stimoli sensoriali di prospettive di cui magari non avevamo nemmeno preso in esame l’esistenza, sulla distinzione sottile che corre tra visione e percezione.
“Ho una formazione da designer e per una decade è stata la mia attività, ma ho sempre fotografato, fin da quando, adolescente, mi sono impossessata della Nikon di mio padre”. Uno strumento chiave per il suo futuro professionale, che rispolvera a fine anni “90 con uno sguardo e un atteggiamento più maturi e funzionali ad una ricerca ben strutturata, per studiare quelle aree di contesti più o meno ordinari, che inevitabilmente e in modo inconsapevole ci sfuggono perchè situate sullo sfondo del nostro campo visivo, percui davvero complesse da cogliere. “Secondi piani dall’atmosfera privata che mi catturavano l’attenzione, al punto da ritagliarli per creare nuove fotografie a partire dagli originali, senza alcun intervento di postproduzione, e senza la possibilità di identificare mai con esattezza le figure ritratte. Ora questa abitudine di “selezione interna” ha lasciato il posto all’osservazione dei dettagli e alla ricerca degli aspetti che il più delle volte escono dalla recezione comune più immediata degli accadimenti attorno a noi”.
Marina rimette così in gioco quel magma di persone dai tratti vacui e indecifrabili che avvolge il centro della scena e che il nostro radar tende fisiologicamente ad escludere, pur mantenendone intatta quella patina sfuocata che lo definisce senza mai definirlo realmente. In questa rivalutazione dei personaggi “secondari” catturati dall’obiettivo, il ruolo primario di chi fotografa è evidente nella scelta del taglio più adeguato a rimetterli dai margini al centro dell’azione. Le prime serie dai titoli eloquenti, Secondo Piano, Alieni, raccontano con il calore algido dell’immagine, effetto della combinazione a volte caustica di fonti artificiali d’illuminazione e fotoimpressione, quella sensazione di vaghezza respirata quando, intenti in un dialogo, intorno a noi avvertiamo una miscela esplosiva di impulsi, mormorii e luci impossibili da distinguere.
All’inizio degli anni Duemila, quando questa sua vena per le “zone estreme” indefinite è in pieno fermento, l’artista seregnese mette in pratica il suo sapiente gioco visuale, lontano da un mero esercizio stilistico fine a se stesso, nell’ambito metropolitano di New York dove hai vissuto saltuariamente. Nell’occasione alcuni spazi del Gansevoort Hotel di Manhattan, a pochi minuti dall’Hudson River, divengono aree su misura per sperimentare quel limite visivo che è già entrato nel suo meccanismo rodato di disamina dei luoghi, e in cui sono immersi clienti, ospiti e personale della struttura ricettiva. Da un viaggio all’altro lo sguardo grandagolare di Marina le consente fra l’altro di notare i mutamenti nella filosofia urbanistica che permea l’immagine della Grande Mela. “Avendo avuto modo di riapprezzarla in più occasioni in pochi anni non ho potuto fare a meno di constatare la progressiva perdita d’anima del luogo, che poi dovrebbe differenziare New York da Berlino a Milano e dalle grandi città, in diverse zone urbane, e nello stesso quartiere Meatpacking, che ho imparato a conoscere e a vedere trasformarsi in nome di una visione futura della città che mi lascia perplessa, per il veloce proliferare di nuove architetture esteticamente allineate, che a mio avviso hanno fatto venir meno il valore identitario della metropoli”. Ma si potrebbe fare una considerazione simile anche su alcuni quartieri di nuova generazione di Milano, che si sono sicuramente elevati a livello di appeal residenziale in aree gentrificate, ma disperdendo forse troppo di quelle caratteristiche di pregio storico che ne hanno delineato una certa idea urbanistica del passato.
Dalle persone agli strumenti della loro frenetica e indifferibile quotidianità, l’analisi di Marina nel 2010, con il progetto Stardust memories, si va a posare con uno spiccato senso lirico – non ancora decollato fin a quel livello nelle esperienze precedenti – sul fenomeno della lettura negli affollati spazi metropolitani: nel mirino del suo studio non finiscono quindi locali abituali per il rituale assorbimento nelle pagine polverose come le biblioteche, ma al contrario, luoghi deputati primariamente ad altro, autentiche vie di fuga mentali giornaliere, rivisitati angoli della riflessione pubblica dei pendolari del nuovo millennio, imprigionati nella spessa coltre di freddo dinamismo regolatore del caos urbano. “L’attenzione verso i gesti ed i dettagli mi porta a fotografare, con criteri particolari, ad esempio immortalando i passeggeri assorbiti nella lettura, e a volte riflessi nei finestrini”, che dal punto di vista artistico ci mostra un’interessante gioco di sovrapposizione interattiva fra piani spazialmente ravvicinati.
Libri trasfigurati in colombe leggiadre, pagine in movimento, spartiti musicali che incarnano la quintessenza di una maturità anche poetica conseguita da Marina nella glaciale contemporaneità urbana, a dispetto di una maggiore scientificità di fondo imperversante nei primi progetti, specie nell’esito cromatico apparentemente innaturale. Ed è quantomai singolare il fatto che il maestro della “cancellazione della scrittura”, Emilio Isgrò, parli di un possibile “dono degli angeli”, di una “promessa di musica”, di fronte a queste immagini. L’indagine sui libri s’intensifica negli anni seguenti, trovando vie espressive inaspettate e sorprendenti nel flusso infinito di vecchi e diligenti scritti di un amico, copie “in stile amanuense” di testi didattici che testimoniano un’introvabile quanto bizzarra tecnica di studio.

Ma Marina trova anche il modo di riunire le sue passioni principali, fotografia e design, in un’esperienza unica di cinque mesi, Corrispondenze, al Malaca Istituto nel 2014. Una singolare Camera d’Artista in cui Marina rianima letteralmente dall’anonimato estetico un ambiente di vita e studio con idee a misura della funzione ospitale di queste camere, poesie qua e là, l’immancabile libreria, e il tocco di classe che immortala tutto il progetto, naturalmente, con l’effetto mosso che ormai rappresenta la sua alternativa firma d’autore. Le ultime trovate in ordine di tempo vanno ancora in questa direzione, riclassificando con una decisa nota poetica, oggetti e complementi d’arredo che altrimenti, solo con la forma sarebbero solo parzialmente capaci di restituire un’emozione forte, e che invece lei riempie di senso con il vuoto cosmico di architetture industriali dismesse. È la riprova di un’attitudine rara e naturale a tirare fuori il meglio delle aree marginali, rivalutandole nel nome di una bellezza nascosta, forse solo “meno esibizionista”. Una narrazione simbolica di momenti privati che potrebbero anche passare inosservati, se nessuno se ne avvedesse. E invece eccoli risfoderati in una formula più spregiudicata e decisamente incisiva.