Aprire gli occhi della gente di fronte alla dilagante perdita di riconoscibilità individuale e all’appiattimento di proposte così come alla contraddizione che viviamo, è obiettivo di chi vuole combattere per davvero il decadimento morale senza fine del nostro tempo. In una fase storica in cui le idee solitarie faticano a farsi largo nella massa umana indistinta, questa è la missione speciale e controcorrente che insegue l’arte comunicativa di Marta Sesana (1981). Nata a Merate, la sua incessante voglia di confrontarsi con il diverso e di essere costantemente stimolata nella propria crescita artistica da un contesto culturale effervescente, l’ha spinta a vivere un lungo soggiorno a Milano. Concluso il capitolo e ritornata alle sue radici, in Brianza, ha se possibile aumentato la prolificità pittorica, sempre nel segno della tecnica ad olio e di una vitalità di tinte che non passa certo in sordina.
E al contrario di alcuni percorsi accidentati nella ricerca dell’agognato soggetto ideale, Marta con il mezzo artistico non ha dovuto faticare poi molto per scoprire la sua dimensione adatta, con cui si è trovata fin da subito a meraviglia. Così, ancora giovane si è inoltrata nella rappresentazione di creature tanto deformi e goffe, quanto incredibilmente rivelatrici dei vizi e del piattume morale umano imperante, che appaiono debitrici a diverse scuole e modelli. In queste figure di matrice fantastica, che ci piace immaginare fatte di pongo, si possono riscontrare riflessi dei volti di Goya, ma gli echi e i rimandi possibili sono indubbiamente moltissimi, per lo più al mondo immaginario.
In questo universo visionario c’è comunque spazio per distinguere elementi stilistici che appartengono per così dire al nostro mondo, su tutti la profondità di scena, che mantiene nella rappresentazione di Marta un certo livello di riconducibilità alla realtà, e a quella menzionata crisi sociale attuale. Pur ponendo in risalto la crescente spersonalizzazione dell’individuo, le sue situazioni focalizzano l’attenzione sulla componente psicologica del singolo nella società contemporanea. Ma il processo di illuminazione di queste dinamiche è messo in atto dall’artista in maniera intelligente, con il ricorso ad una sottile ironia e l’uso di una gamma cromatica tutt’altro che cupa, come invece la deriva morale del nostro tempo quasi imporrebbe.
Le sue sono opere curate, che richiedono bozzetti preliminari, ma Marta dimostra di saper anche dipingere “di getto”, e nell’anno alle spalle ha riempito pagine di carta con scenari sia immaginari, come abituata, che con luoghi della Milano come può essere la Torre Velasca, a cui è rimasta affettivamente legata, tradizionalmente alimentati di senso dalla presenza delle persone, e in questo frangente svuotate di tutta la loro essenza. Le sue idee in qualche caso sono entrate nel circuito libero della Street Art, anche se la sporadicità degli interventi firmati a cielo aperto – a Socraggio sul Lago Maggiore, all’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini di Milano e nella “sua” Osnago per il Festival La Voce del Corpo – a suo dire non le valgono al momento e con pieno diritto l’etichetta di street artist.
Foreste del nord Europa, città degli anni “80 mai viste, sono per lei un modo per fantasticare attraverso arditi voli pindarici, stemperando anche il grigiore umorale del momento che non consente grandi opportunità di uscire da una routine, che a volte può trasformarsi in una gabbia stressante, una quotidianità opprimente. Anche con il supporto delle sue “altre” passioni, la musica e le passeggiate, lei ha trovato comunque il modo di combattere i rischi collaterali del confinamento, mentre le sue proposte figurative, mai in modo perentorio ma con l’allegria dei suoi colori, ci mettono in guardia anche su un pericolo di uscita dai binari dell’equilibrio mentale, da non sottovalutare.