Oggi è diventato comune parlare e sentir parlare di cultura del riuso e di arte ecologica. Diverso, anzi singolarissimo, era trovare concetti analoghi una ventina d’anni fa. Fra i pionieri di un modo fino al Novecento sostanzialmente sconosciuto, ritenuto assolutamente inconcepibile di rileggere gli oggetti del nostro vivere giornaliero – a volte veri e propri ingombri del quotidiano – sotto un’altra luce (senz’altro più onorevole), non si può non ricordare l’apporto che dagli anni “90 ha iniziato ad offrire a questo “microcosmo culturale” Enrica Borghi. Artista piemontese, ha eletto la natura di grande interesse estetico e indubbia ispirazione delle colline del Lago d’Orta, come pregevole cornice in cui coltivare questo amore irresistibile e incondizionato per ciò che rappresenta l’ordinario e che spesso passa in secondo piano.
A Villa Borromeo d’Adda di Arcore – dal 1° maggio al 27 giugno 2021, venerdì, sabato e domenica dalle 15 alle 18 su prenotazione su prenotazioni@associazioneheart.it – si profila quindi un’occasione imperdibile di scoprire da vicino un’attività che per chi segue Enrica è in parte ben nota, passando da Veneri moderne acconciate con strofinacci per le pulizie casalinghe e rivestite di unghie posticce, simboli di una condizione eterna di autonomia e ai “tappeti” di mandala fatti di tappi e “biglie” in plastica. Una visione sensibile allo scarto tutt’altro che solo funzionale all’arte in sé, ma che riflette una pratica di recupero che l’autrice adotta da quando ha cominciato a vivere da sola, accorgendosi dell’accumulo facile di questo genere di rifiuti. La novità che l’artista porta in Brianza è il dialogo sottile che è riuscita a costruire con il contesto espositivo della villa, da pochi anni rinata dopo un importante periodo di restauro, creando così un eco, un “riverbero” appunto (titolo della personale), dell’elegante cornice in cui è armoniosamente inserita l’esposizione al primo piano del complesso. Pur nella sua inevitabile accezione contemporanea, l’allestimento curato da Simona Bartolena e Pierre Padovani e in collaborazione con l’associazione Asilo Bianco, si rapporta infatti con grande armonia agli spazi ultrasecolari dell’ex edificio nobiliare. Emblematica di questo dialogo avvincente con gli ambienti sfarzosi della magione di delizia arcorese è l’idea di Grey Laguna, una rivisitazione con l’occhio del riciclo, quindi rigorosamente con materiale di scarto, dei lampadari di Murano che infiorettano le stanze dal gusto raffinato, realizzata da Enrica nell’estate 2020 proprio nell’iconica isola lagunare che è sede di quel regno di sapienze artigianali del vetro riconosciute e apprezzate in tutto il mondo.
Nel percorso ritroviamo quegli “abiti alternativi” che da anni segnano il suo fare eterogeneo a livello di scelta dei materiali, assolutamente estroso e riconoscibile per pensiero: come le corazze delle donne guerriere simbolo di un’emancipazione femminile su cui Enrica lavora da anni, originati dalla miscela di “lane etiche” e contenitori di detergenti. Un’idea nata come confessa l’autrice, ad allestimento in corso, segno dello spasmodico disbrigo dei lavori di casa che imperversa quale esigenza primaria inderogabile nel periodo pandemico. E come ci ha abituato, le relazioni tra materiali sono le più svariate, arrivando a vette impensabili negli intrecci fra gioielli di plastica e pietre preziose realizzate dal maestro orafo di Valenza Margherita Burghener. E anche con la fotografia Enrica riesce a colpire per l’originalità delle soluzioni, dove gli scorci della villa si perdono in sfondi pervasi dai suoi immamcabili colli di bottiglia.
Distante dall’intenzione di un circuito chiuso, la mostra si relaziona bene anche con l’esposizione contestuale (stesse date e orari di apertura della mostra di Enrica Borghi, prenotazioni e informazioni su www.villeaperte.info). Curata da Bartolena, con la significativa collaborazione di Anna Finocchi, massima esperta del soggetto con alle spalle importanti pubblicazioni, nei sotterranei dell’ex edificio signorile e dedicata all’artista maledetto, in un limbo complesso da vivere e interpretare artisticamente, tra romanticismo e scapigliatura, l’iniziativa su Federico Faruffini (1833-1869) Io guardo ancora il cielo riscatta con una retrospettiva di estrema cura nella selezione delle opere (in mostra anche una Saffo raramente esposta, oltre ad alcuni significativi scatti d’autore che lo valorizzano anche come sensibile interprete nel campo fotografico per il suo tempo), una storia travagliata anche e forse soprattutto a causa di un’indole ribelle e spesso in conflitto con se stessa, che lo porta a girare senza trovare mai un luogo realmente appagante per la consacrazione definitiva, tra Parigi, Milano, Roma e Perugia.

Un’indole tormentata ma al contempo audace, come rilevabile anche dalla volontà di mettersi a confronto con apparente disinvoltura con argomenti quale quello dantesco, tutt’altro che “battuto” nella storia dell’arte moderna, e con una modalità pittorica spesso antiaccademica. Bene, con l’opera Toletta Antica, rivisitazione “alla sua maniera” del quadro dell’artista sestese, con tanto di botticine in plastica a richiamare l’ambiente riservato, Enrica porta l’attenzione a posarsi su uno dei soggetti prediletti dal genio tormentato, quello della figura femminile, in uno dei momenti più intimi per eccellenza. È un’altra indicazione di un doppio progetto strutturato con una mentalità aperta a cui raramente capita di assistere, che unisce il gusto dell’arte moderna al contemporaneo, legandole a loro volta al contenitore degno di nota, e per due mesi prova a scrollarci di dosso quella chiusura psicologica imposta dallo stallo sociale prolungato.