Nelle pieghe dell’arte amodale, le città immaginarie di Mario De Leo

La meccanica ripresa di modelli stilistici straconsumati, con variazioni minime, è una “constatazione facile” nell’era artistica che ormai si trascina da decenni. Anche per questo, elaborare su un piano inedito e non di immediata comprensione, la dimensione interpretativa di un’opera, è più di una semplice esigenza interiore per l’istinto creativo di Mario De Leo (1944). Nativo di Ruvo di Puglia (Bari), “salito” da adolescente al nord, in principio sente come necessità primaria, dover incanalare e fissare in qualche modo la tradizione dei canti popolari che ancora dominano la campagna del Sud, dove radio e televisione – siamo negli anni “50 – ancora “non hanno attecchito”.

In un’effervescente panorama milanese, ancora però fermo all’onda culturale dei vari cenacoli artistici sorti a metà secolo, la musica rappresenta quindi la prima tappa del lungo percorso di De Leo nell’arte, come certificano un LP in cui racchiude le sue composizioni di matrice etnica, dal titolo Suonata Situazione, ma anche la fondazione della cooperativa musicale l’Orchestra, con Moni Ovadia e Riccardo Sinigaglia, e lo Studio Nazionale di Musica Etnica, insieme allo studioso di Musica Popolare, Michele Straniero. Non mancano nemmeno incarichi prestigiosi, come quello per la colonna sonora del film Sole, acqua, terra, vento, di Jane R. Spaiser nel 1980. L’approccio interdisciplinare all’arte di De Leo è invece ben sintetizzato dalle esperienze editoriali di Osaon e dal suo proseguimento, Harta, bimestrali di interscambio culturale, che lo tengono impegnato tra gli anni “70 e “80. In questo frangente la vena pittorica di De Leo è tutt’altro che sopita: quando non compone e non suona, si diletta nella creazione di scenari bidimensionali dal gusto astratto, in cui condensa elementi di un passato indecifrabile, per dar vita a personali città del futuro (in effetti rivelatrici di una matrice futurista) dove già iniziano ad intravedersi le lettere cosmiche che prenderanno piede di lì a breve.

Mario De Leo, Lettera Cosmica (2008)

È il passo che precede il suo ingresso nell’arte elettronica e informatica: un’originale metafora del creato in linea col veloce progresso tecnologico degli ultimi decenni del secolo, in cui De Leo combina graffette ramate di quelle usate per chiudere scatoloni di cartone, condensatori ceramici per componenti elettronici e microchip saldati su fili di ottone (questi ultimi entrano nelle sue mani da un’illuminazione sul finire degli anni “70, da un guizzo brillante in una discarica di Sesto San Giovanni), in universi scanditi da un ritmo che richiama quello delle composizioni musicali. Nascono così i Punti Ascensionali, da leggere come spartiti, come tavole della legge o dell’anima, piuttosto che quali visioni astratte del mondo. In qualsiasi caso si presentano come rappresentazioni amodali: non seguono cioè tendenze e modi di operare stereotipati, ma un linguaggio concettualmente inedito che nella sua necessità di decriptazione, invita ad andare oltre la semplice superficie delle cose. Mentre nei Circuiti Estatici sono le schede elettroniche a prendersi la scena, sebbene talvolta mimetizzate dalla pittura.

In queste architetture sospese, tra pittura e scultura, l’artista gioca tra immaginazione e razionalità, bilanciando la dimensione onirica della prima con la solidità della seconda. De Leo le farcisce con simboli che stimolano la traduzione dei paesaggi immaginari: dalla scala emblema del passaggio fra un piano dell’essere ad uno superiore, al vascello e alla vela, simboli della traversata verso i regni dello spirito e dell’inconoscibile, fino al triangolo a piramide, collegabile alla vita. Alcuni segni poi assumono i contorni di brillanti riletture attuali di antichi codici della tradizione visiva: vale per le forme ellittiche dorate, che ricolme di grazia e trascendenza, suonano come interpretazioni moderne di aureole. A svettare è però la figura del cono, che talvolta in rilievo, nella sua forma ad invaso, è un invito allo spettatore ad entrarvi per intraprendere un viaggio senza limiti. Le linee descritte dal materiale di produzione industriale, spesso assumono i caratteri di “canti sinusoidali”: morbidi mondi curvi analoghi per purezza a quelli rivelati sovente dal mondo animale e vegetale.

In queste espressioni a prima vista molto complesse, sta tutta l’essenza del pensiero di un “contadino tecnologico”, definizione che De Leo ha coniato per sé e il suo sguardo sulla realtà, che coniuga la semplicità e il legame con la terra delle proprie radici, e l’anima progressista del luogo che lo ha adottato. Sta a noi decidere se soffermarci e “risolverle”, oppure “passare oltre”. È lo stesso discrimine che passa fra chi pratica un’arte immediata e sovrasfruttata – da cui questo cantastorie moderno ha sempre preso le distanze – e chi come De Leo è interessato a somministrare una ricetta visuale fuori da schemi modali già visti, per il bene dell’arte stessa, per evitare una pericolosa deriva che porti all’appiattimento totale di idee. Un’arte, la sua, che ricalca un surrealismo filtrato da nuova concezione.

Fuori dagli articolati castelli immaginari c’è comunque ampio spazio per una ricerca figurativa innestata su un soggetto che rammenta valori semplici come quello delle figure amazzoniche, sviluppate dagli anni “80 e rispolverate a più riprese, come accaduto spesso nell’indagine dell’autore, che è solito aprire un ciclo, per poi accantonarlo temporaneamente, riprendendolo ed evolvendone qualche aspetto o carattere, magari a distanza di anni. Ma non mancano pure autoritratti e ritratti autorevoli di profili eminenti, da Pasolini a Manzù, scomposti sempre con quel linguaggio tecnologico che rispecchia un’altra interpretazione del reale. La formula artistica di De Leo non ha mai tradito alcuni assunti di fondo, ad esempio l’esplicito riferimento ad un umanesimo esistenziale d’impronta moderna, dove il pretesto del “fare” scaturisce dall’osservazione di ciò che lo circonda, declinato in costruzioni poetiche delicate – di quella delicatezza razionale tipica del mondo digitale – che poco o nulla hanno a che vedere con le soluzioni demagogiche di certa arte. Una convinzione inossidabile che lo accompagna anche ora, nel suo studio di Lissone, che non teme il carattere della propria natura in controtendenza con il pensiero preconcetto, rigido e accademico che regola una grossa fetta dell’arte di oggi.

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